Intraprendere un viaggio all’interno della lingua e della cultura di un Paese è anche confrontarsi con la sua produzione artistica. Specie se questo paese è l’Italia. Si tratti di poesia, di arti figurative, di musica, il nostro senso dell’estetica è una specie di marchio di fabbrica: se non lo vedi, non hai capito l’Italia. O almeno così vuole il cliché.
Stereotipo o meno, il bello ci sta a cuore da sempre. Si ha bisogno di mangiare bene, di riempirsi gli occhi di bellezze artistiche, di cantare melodie che alleggeriscano il quotidiano. Se poi su queste melodie vengono scritti anche versi che rendano giustizia alla lingua italiana, allora la canzone è d’autore. Già, così viene chiamato quel tipo di canzone che nasce una volta trovato l’equilibrio perfetto tra testo e melodia, quando. Quando una persona sa far suonare, anche le parole più semplici suonano in modo diverso; chi individua nella fonetica uno strumento musicale a tutti gli effetti, è un cantautore.
Oggi nelle radio italiane dilagano i trapper, i cui testi - salvo rare eccezioni - sono ben lontani dall’essere scritti in un italiano decente e puntano buona parte del loro appeal su malavita e sessismo un tanto al chilo. Con buona pace dei cantanti pop, buoni per le famiglie che guardano Sanremo e i cui testi forse ancora rispettano la struttura della frase, ma risultano spesso già sentiti, piatti, pretenziosi. In poche parole, non “suonano”. Eppure pochi (ma buoni) temerari hanno ancora l’ardire di salvaguardare l’italiano, unendolo alle tendenze musicali più recenti. Vi propongo allora quattro nomi di artisti che ancora sanno far suonare bene la lingua di Dante:
Versi visionari e filosofici intonati su synth e cassa compressa? Si può! E quello che fa Cosmo (al secolo Marco Jacopo Bianchi) che dalla provincia più cronica (Ivrea) prova a rilanciare ben due culture destinate a non incontrarsi mai per gli standard italici: il clubbing e la canzone d’autore. Certo, nelle sue interviste si legge che uno dei suoi intenti è quello di liberare la forma canzone dalla dittatura del testo cerebrale e poetico a tutti i costi per lasciare spazio a ritmica e frequenze basse. Ma probabilmente è proprio questa attitudine mentale di liberazione assoluta a portarlo a scrivere testi interessanti, nient’affatto conformi ma neanche troppo contorti. E il tipo di riflessioni che li accompagnano oscillano quasi sempre tra l’onirico e l’esistenziale:
“Sento le voci, sì, mi sento chiamare/Dalle mie fantasie, dal profondo del mare/Dalla TV, dalle porcherie,/Dal silenzio dei sogni inconfessabili (Le voci, L’ultima Festa 2016)”
L’altro intento è quello di riportare la cultura del clubbing, del ballo non inteso come insieme di passi e figure da imparare e mettere in pratica sulla pedana, ma del ballo inteso come sentire il proprio corpo che si muove a tempo con le frequenze basse. Il ballo dunque inteso come misura di sé, come ricongiungimento con se stessi.
“Ho voglia di ballare, solo di ballare. Ho voglia di sentirmi, ritrovarmi […] ho voglia di capire a che punto questo corpo può arrivare. Fino a quando riusciremo a non dormire, a non morire. (L’amore, Cosmotronic 2018)”
Con Cosmo si ha l’occasione di esplorare un italiano organizzato in un fluire di immagini e concetti (a volte anche astratte), ma asciutto e semplice, e mai banale. Tutto questo, non potendo fare a meno di ballare!
Agrodolci. Così amano definirsi questi 4 ragazzi di Genova, che nel quartiere Marassi nel 2002 hanno dato vita al loro progetto. In effetti, saper mescolare sapientemente ironia e pessimismo, divertimento e malinconia è uno dei segni particolari dei genovesi. E nulla più dei contrasti rende interessante un prodotto artistico, come ad esempio il testo della canzone La nostra pelle:
“Svegliarsi tutti i giorni, lavarsi i denti/Guardarsi allo specchio i lineamenti/E scoprire che sei proprio tu la persona che ti ha fatto ridere di più,/e scoprire che sei proprio tu la persona che ti ha fatto piangere di più./Un buon amico, lo stronzo che ti ha mentito sì, sei proprio tu/A volte vorrei lasciarmi ma non saprei cn chi altro andare/A volte mi innamoro di me e ritorno a giocare” (La nostra pelle, Marassi 2017)
Insomma, amicizie, amori, ma anche crisi delle giovani generazioni e voglia – nonostante tutto – di provare meraviglia sempre. In positivo o in negativo, delle piccole cose come delle grandi:
“Della luna e delle stelle mi stupisco sempre/Della gente che lavora per niente io mi stupisco sempre/ Della neve di Dicembre io mi stupisco sempre/ Della saggezza delle piante io mi stupisco sempre” (Gli occhi della luna, Marassi 2017)
Negli Ex Otago si trova il meglio della tradizione melodica italiana fusa con le sonorità più in voga: dal pop all’indie e al folk. In tempi in cui molti amano gridare sconcezze con intento provocatorio, (provocando in realtà solo il voltastomaco), gli Ex Otago amano sussurrare, colpendo con un attributo che ormai è rivoluzionario vista la sua rarità: la delicatezza.
Un po’ come per gli Ex Otago, anche l’universo di Frah Quintale sembra essere relativamente piccolo: amicizie, amori, feste, provincia. Ma anche qui, il modo assolutamente originale di mettere in rima e melodia storie ordinarie lo rendono degno di ascolto. Frah Quintale, bresciano classe ‘89, viene dall’hip hop, e questo spiega la sua straordinaria padronanza della metrica. Ma un giorno dev’essersi accorto di avere anche una voce potente e intonata e una grande capacità di comporre belle melodie. Nasce quindi il Frah Quintale che è possibile ascoltare oggi nelle radio, che è sempre un misto di disillusione, romanticismo ed autoironia, veicolato da un sound energico ed esplosivo :
“È arrivata un’altra estate, prenderò i muri a testate/Ogni volta che penserò un po’ a te/Vuoto come queste strade, passerò i giorni a fumare/E avrò un altro cellulare senza una foto con te (Cratere, Regardez-moi 2017)”
Ed anche in questo caso, in linea con la tradizione italiana della canzone d’autore. Ascoltando infatti Nei treni la notte, come fare a meno di pensare al Lucio Dalla dei racconti metropolitani notturni?
Ti ho vista illuminarti all’alba/Eri bella pure quando si son spenti i lampioni[…]/Ed ogni volta ci ricasco/mi stringi forte e mi trascini in basso/Abbiamo visto borghesi incazzati, rumeni ubriachi e qualche tossico della stazione/Camminavamo nei treni la notte/Per scrivere il nostro nome ed aggiungere un po’ di colore/ (Nei treni la notte, Regardez-moi 2017)
Oppure ascoltando 8 Miliardi di persone, siamo gli unici a sentire un rimando (poco importa se consapevole o meno) a Fotoromanza di Gianna Nannini?
“Dirti ti amo/è un volo dal secondo piano/un incidente in bici contro un carrarmato” (8 Miliardi di persone, Regardez-moi 2017)
Di questo ragazzo spicca la capacità di raccontare le relazioni in maniera sufficientemente seria ma al tempo stesso autoironica, profonda e scanzonata, romantica ma non sdolcinata, spontanea ma non approssimativa. Una narrativa così fresca è possibile quando si ha dalla propria un’arma potente: la sincerità.
Sì, è una cantautrice. Sì, è catanese e sì, scandaglia e racconta con la sua musica e i suoi testi l’universo femminile in un modo che gli uomini non amano sentire. Ma non è Carmen Consoli. Quello di Levante, nome d’arte di Claudia Lagona, è un modo di raccontare più caustico, senza mezzi termini, meno dedito alle speculazioni, fatto piuttosto di valutazioni nette…e forse per questo più liberatorio. Un linguaggio che aiuta a uscire da certe situazioni. O quantomeno, a gestirle. Ad esempio, vi sarà senz’altro capitato di imbucarvi in una festa noiosissima dove non conoscevate neanche il festeggiato e di trovarvi poi mezzi ubriachi a chiedervi “Ma che ci faccio qui? Ma come sto vivendo la mia vita?”. A me sì. E riascoltando questo pezzo, ho riso tanto:
“Corre l'anno 2013,/In mano alcolici... e niente più/Che vita di merda/Ma che cosa c'entra il bon ton?/Ho riso per forza ho rischiato di dormirti addosso./Stronzo, tanti auguri ma non ti conosco.” (Alfonso, Manuale distruzione 2014)
Scegliendo talvolta un tono confidenziale e autobiografico, talvolta uno decisamente più critico e impegnato, questa cantautrice mantiene comunque la costante dell’immediatezza, caratteristica che la rende degna di più di un ascolto. Rispetto ai colleghi uomini descritti sopra, c’è in lei meno voglia di “giocare” con le parole, o per meglio dire, l’elemento
ludico è trasferito altrove: il gioco di parole viene rimpiazzato dal gioco di simboli e icone. Un esempio su tutti, Gesù Cristo, il cui sacrificio male si riesce a paragonare a quello di tante donne senza che la cosa sembri blasfema:
"Gesù Cristo sono io/Moltiplicando tutta la pazienza/Avrò sfamato te e la tua arroganza/Forse ti ho porto pure l’altra guancia/Gesù cristo sono io/Che di miracoli ne ho fatti tanti/Ti ho preso in braccio e ti ho portato avanti/Ma tu ricordi solo i miei peccati" (Gesù Cristo sono io, Nel caos di stanze stupefacenti 2017)
Non so se questo pezzo sia stato scritto anche con l’intento di scheggiare uno dei tanti – odiosi – stereotipi di genere. Ciò che so, è che Levante col suo linguaggio fatto di pochi fronzoli, riesce anche in questo. Che per una cantante “pop” non è poco.
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